La Gazzetta del Mezzogiorno - Le radici antiche del mal di “taranta” di EUGENIO IMBRIANI

3 ottobre 2019

Siamo sicuri di saperne abbastanza? Siamo sicuri di saperne qualcosa? Dopo l’estate delle semplificazioni e dei luoghi comuni, si fa propizio il tempo per una lettura non frettolosa dei testi teatrali, che hanno per tema il tarantismo e i tarantati, pubblicati da Brizio Montinaro, attore e saggista, nel volume “Il Teatro della taranta” (Carocci, 2019).

Si tratta di cinque pièce composte e destinate alla rappresentazione, i cui autori sono grandi drammaturghi, dagli spagnoli Vélez de Guevara e Calderón, figure emergenti dal secolo d’oro, al bolognese Albergati Capacelli, vissuto nel XVIII secolo, a Jean- Marie B. Clément ed Eugène Scribe che ci conducono nel pieno Ottocento francese: un bel tragitto nel tempo e nello spazio d’Europa. Montinaro introduce il volume con un ampio saggio e, quindi, pubblica i testi nella lingua originale con la traduzione in italiano a fronte, facendosi carico di una curatela molto attenta.

In tutta Europa, per secoli, la strana affezione definita tarantismo e i comportamenti eccentrici che ne derivano sono stati ricorrente oggetto di discussione, particolarmente tra medici, filosofi, letterati; tuttavia, una porzione, non ben selezionata, di quelle riflessioni si traduceva, tra la gente comune, a maggior ragione in luoghi lontani dalle Puglie, in nozioni confuse, informazioni vaghe, notizie curiose, un rincorrersi e un miscuglio di motivi musicali e narrativi, con la mediazione di teatranti, imbonitori, ciarlatani, mercanti, giocolieri che transitavano nelle città e nei paesi con il loro carico di fantastici trovati medici, illusionismi, storie da raccontare.

La rappresentazione scenica, sia all’aperto sia nelle sale apposite, con la forza plastica del suo linguaggio, ha fornito un contributo fondamentale al costituirsi di una comune diffusa superficiale ragnatela di conoscenze più o meno condivise, in cui i canti si intrecciavano alle orazioni sacre e le pozioni si mescolavano con le terre di Malta per la cura degli avvelenamenti; gli sguardi, nelle piazze, erano catturati dalla destrezza dei giocolieri e accanto agli orsi ammaestrati venivano esibiti uomini rabbiosi e tarantati aggressivi e placati dai suoni. Proprio Calderón, siamo in pieno Seicento, fornisce un esempio molto chiaro di un tale groviglio culturale quando la Franchota, protagonista di un suo entremés, si mette a cantare, tra l’altro, una filastrocca simile a quella che più o meno nello stesso periodo veniva utilizzata in Puglia nella cura del tarantismo, stando al gesuita Athanasius Kircher.

Ritengo che questo libro, oltre ad avere il merito di fornire ai lettori dei testi di certo non facile accesso, sia molto utile perché alimenta un importante campo d’indagine: quello che riguarda la mediazione dei saperi, il realizzarsi di un sistema di comunicazione che li produce e li stravolge nello stesso tempo. Ognuno può giudicare se e in che misura questo tema possa risultare attuale. Torno, allora, alla domanda iniziale: ne sappiamo qualcosa, noi del tarantismo? Quanto di ciò che conosciamo non è frutto del discorso mediatico pervasivo, venuto a patti con lo spettacolo, inevitabilmente privato di un atteggiamento critico? (* docente di Antropologia culturale nell’Università del Salento)