Paese sera

Daniele Del Giudice

Nella terra del rimorso

<<Salento povero>> di Montinaro

24 Dicembre 1976

Un libriccino semplice, veloce, ma ricco di informazione originale sulla cultura delle classi subalterne nella terra del Salento. Cinque <<studi>> che valgono, forse più che per l'elaborazione teorica, per l'indagine filologica personale negli archivi e nelle piazze; ma l'artigianalità della ricerca è nello spirito della cultura indagata.
Si comincia con la testimonianza del <<Bruscello>>, rappresentazione popolare medioevale del filone dei Calendimaggi, delle feste campestri, degli alberi della Cuccagna, che originarono la cinquecentesca <<commedia rusticale>>. Di questo Bruscello (cioè arboscello, attorno al quale una compagnia vagante si raduna e canta) si conosceva la grande diffusione nella zona toscana, vedi gli studi in proposito dal Fucini al Toschi. Montinaro ne scopre invece un esempio chiarissimo in quell'area conservativa greca, in provincia di Lecce, che prende il nome di Grecìa salentina. Nel Bruscello di <<S. Lazzaro>>, intitolato più al giorno di rappresentazione che al contenuto della recitazione, la festa pagana si capovolge nel rito religioso: l'idea di risveglio (della natura) si prolunga in quella di resurrezione (del Cristo) e ne vien fuori una passione simile nell'argomento alla lauda Jacoponesca seppure assai più epica nella struttura letteraria.
Di laudi propriamente dette, diffuse nel Salento, Montinaro cita due esempi, di cui uno inedito, collegando la diffusione del testo letterario a quella degli ordini pauperistici, delle confraternite dei Flagellanti e infine al movimento dei viaggiatori commerciali.
Ma i saggi più curiosi e interessanti del volume riguardano alcune testimonianze, piccole e grandi, del costume salentino: dalla storia personale di Rosa Dianoti, mora africana, ultima schiava salentina (di cui Montinaro ricostruisce la vita attraverso i documenti di archivio, dall'atto di vendita a quello di morte, passando per l'affrancamento) al fenomeno del tarantismo.
Il capitolo dedicato al tarantismo è impostato sulla base di un confronto: il paragone con la quantità e qualità del fenomeno che Ernesto De Martino accertò nel 1959 (<<La terra del rimorso>>) e che oggi, quindici anni dopo, appare non solo ridotto nella sua entità ma quasi svuotato nel suo significato. San Paolo, al quale il 29 giugno tarantate e tarantati andavano ad invocare la <<liberazione>>, non è più lo psicanalista dei diseredati e dell'illusione, così come il santuario di Torrepaduli (al quale è dedicato l'ultimo capitolo del libro) non è più il luogo della estrema superstizione, nel quale la gente di miseria chiedeva ogni benessere, dalla salute fisica alla prosperità. I tarantati (pochi) sembrano quasi oggetto di folclore e al santuario di Torrepaduli c'è stato un curioso avvicendamento di classe: non più i diseredati, i nullabienti (che investono oggi i loro soldi nella medicina ufficiale) ma la borghesia, che arriva sempre prima, e che dalla medicina delusa cerca rifugio e svago nella superstizione, nella stregoneria.
E' in questi capitoli che si manifesta con più vigore il significato polemico sotteso a tutta l'indagine di Montinaro.