Corriere della Sera

Domenica 22 febbraio 1981
Corsera
<<Nostra Dea>> alle Arti

Secondo Bontempelli l'abito fa la donna

ROMA - L'abito non fa il monaco, dice il proverbio. Ma non è vero: l'abito fa il monaco o il generale, il ricco o il povero. Anzi fa il buono e il cattivo, il generoso e l'egoista. E non è neppure necessaria una diversa foggia d'abito: basta il colore. Così capita a Nostra Dea, eroina dell'omonima commedia di Massimo Bontempelli, grazioso personaggio bidimensionale, quintessenza della mutevolezza d'umori, presunta o reale, della donna. La signora Dea, che al mattino, quando è ancora in vestaglia, non sa chi sia: non ha idee, né gusti, né sentimenti. Ma se si mette il tailleur rosso fuoco diventa un'energica persona, capace di far dannare un uomo con un solo sguardo e di ridurlo in briciole con una battuta. Col vestito color tortora, invece, è un tenero agnello in gonnella, sprizza affettuosità da ogni poro. Ma attenzione: stretta in una guaina verdolina con lo strascico di seta non assomiglia, soltanto, ad una serpe: è un'autentica vipera: un concentrato di veleno, che sprizza attorno a chi le capiti a tiro.

Con il suo genio ironico, il gusto del paradosso elevato a mito, e del mito quotidiano (in questo caso la moda) tirato per il collo fino a diventare regola prima ed ultima della vita Bontempelli giungeva a conclusioni simili a quelle di Pirandello: che cioè siamo uno, nessuno e centomila. O almeno certe donne sono sette, nove o quindici, a seconda di quanto è fornito il loro guardaroba. Ma mentre Pirandello tutto ciò raccontava soffrendo e facendo soffrire i suoi personaggi, Bontempelli ne sorride con cinica bonarietà. Poiché a lui, ancora più che al suo amico Pirandello, interessavano i meccanismi della vita, più che gli uomini che la vivono.

Tornata in scena al teatro delle Arti, nell'ambito di un ciclo dedicato alla <<Musica e teatro a Roma negli anni Venti>>, Nostra Dea conserva la freschezza di quando fu presentata la prima volta, nel 1925; ha perso però, né poteva essere altrimenti, l'odore di scandalo che allora la accompagnava. Diverte, ad ogni modo, e contribuisce egregiamente alla riscoperta di pagine da non dimenticare della nostra letteratura, così come l'eccellente Minnie la candida dello stesso autore, vista pochi giorni fa al Parioli.

La regia di Lorenzo Salveti è fine e discreta, dando a tutta la storia una giusta dimensione di gioco leggermente misterioso. Le scene sono più che opportune citazioni di quelle ideate da Virgilio Marchi, gran profeta della scenografia futurista.

Esile ed elefante in ogni abito, Marina Malfatti riesce soltanto in parte ad alternare, come vorrebbe l'autore, lo spirito dell'agnello a quello del serpente, il sorriso dell'agnello e il ghigno del diavolo. in sostanza manca parzialmente all'appuntamento con un testo che ogni attrice estroversa vorrebbe avere in repertorio. Più convincenti appaiono i comprimari: Brizio Montinaro nei panni di un amante sciocco sempre ai piedi della Dea; Piero Di Iorio, l'amico dall'intuito sottile che, avendo capito il gioco, costringe la signora a cambiar d'abito; Giorgio Giuliano, riuscita macchietta di un medico geniale il quale, conseguentemente al tema generale, non visita gli ammalati ma prende in esame i loro oggetti per fare la diagnosi.

Maurizio Giammusso