La tecnica e il rito

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LA TECNICA E IL RITO (sul set di)

Miklos Jancso e Brizio Montinaro

Filmcritica, n. 223, marzo 1972

 La tecnica di Attila come tecnica di Jancso. Ecco il ruolo concreto dei personaggi: la prima apparizione di Attila definisce già in modo esauriente il metodo, che è un fatto concreto. “Ho l’autorizzazione di me stesso per fare ciò che faccio”; e fa girare intorno a sé il cavallo. Ecco come il ritmo avvolgente (questa volta proprio circolare) di Jancso diviene fatto concreto: forme, rapporto di forme, contenuto. Provate a raccontare La tecnica e il rito. Non ci riuscirete senza riferirvi continuamente alla forma. Altrimenti, parlerete di altro: come parlate di altro quando racchiudete in formule storiche una serie di avvenimenti, che invece vanno cercando la loro forma.

Prendiamo la violenza nei rapporti dei tre (due soldati e Attila) all’inizio: ha un aspetto di favola astratta, quasi mistica (quel resuscitare sotto i colpi di freccia), ma non è inverosimiglianza, è simbolo, esistenza profonda. Quando parla uno, l’altro gli gira intorno. Al soldato che ha servito la violenza convinto di eseguire ordini e di preservare la propria innocenza Attila risponde: “Hai figli? Allora, uccidi la tua famiglia”. Il rilancio della violenza! Poi, una carezza al cavallo, uno sguardo verso il mare: alle situazioni simboliche sottendono azioni del reale fotografico che complicano l’inquadratura e la sequenza e danno profondità di esistenza.

Ecco il verosimile e il polisenso: Attila guarisce se stesso e gli altri dalle ferite perché sa dare ai suoi gesti e alla sua vita il ritmo e il senso del rito, il rito della violenza. La rappresentazione è dichiarata, nessun equivoco neorealistico. La m.d.p. non sta ferma un attimo: la violenza, in fondo, è un’ansia. Non è necessario mostrarla. Tutto rimane apparentemente calmo, anche nei momenti delle uccisioni: basta il movimento della macchina e quel suonar di tamburi, quel punto di riferimento comune, una continuità simbolica.

Franco Pecori