martedì 18 dicembre 2007
Brizio Montinaro indaga il tarantismo come male di vivere
di Felice Blasi
È sempre difficile parlare oggi del tarantismo, di ciò che esso è stato nella cultura popolare, senza l'immagine di spettacolarizzazione che gli anni recenti hanno impresso al fenomeno. II tarantismo non era una festa: era il male oscuro che lacerava in silenzio, per giorni e nella vergogna, un'anima addolorata dalla vita. La melanconia, la delusione d'amore, lo scacco dell'esistenza, la disperazione di una creatura vinta, è un dolore che lacera dentro come un'ossessione circolare: per uscirne, la cultura aveva elaborato una terapia musicale, fatta di sonorità diverse, che andavano a toccare il dolore, prima con tempi lenti e poi via via sempre più pulsanti e frenetici. La trascrizione di questi brani musicali, cominciata nel Seicento, porta spesso a loro titolo la definizione di «antidotum tarantulae»: erano musiche farmacologiche, certificate per tale scopo.
Oggi tutto questo è finito e il tarantismo si è trasformato in dato folcloristico o in spettacolo. Ma si dovrebbe in qualche modo conservare memoria del dolore da cui
origina. È quello che fa Brizio Montinaro, attore e scrittore, che si dedica da anni
all'antropologia culturale e alla religiosità popolare: ha curato i famosi Canti di pianto e d'amore dall'antico Salento (Bompiani 1994), San Paolo dei serpenti (Sellerio 1996), e oggi pubblica Danzare col ragno. Musica e letteratura sul tarantismo dal XV al XX secolo (Argo, Lecce 2007, pp. 156, curo 18; con cd musicale allegato), volume che sarà presentato questa sera a Lecce alle 18.30, al Circolo Cittadino.
Il libro ripropone i testi e le musiche della ricerca teatrale rappresentata a partire dal 2006 in varie chiese e teatri italiani. In più, il volume riproduce una serie di illustra-zioni dalla storia dell'iconografia del tarantismo negli ultimi cinquecento anni. E c'è anche qualcosa di veramente inedito e raro: una serie di 24 immagini fotografiche scattate dall'autore nel giugno 1974 a Galatina, la cittadina dove i tarantati, durante la festa di San Paolo, si recavano in una sorta di pellegrinaggio terapeutico. Sono fotografie molto drammatiche, che mostrano l'intensità del dolore dei protagonisti.
Era un momento, dice Montinaro, «in cui la debolezza umana si mostrava in tutta la sua spaventosa bestialità»: i tarantati e i loro familiari non volevano essere ripresi durante quella sofferenza e odiavano turisti e curiosi che cercavano di immortalarli. De Martino aveva diffuso per la prima volta le immagini di quel fenomeno al grande pubblico e i tarantati avevano vissuto con vergogna la loro inaspettata celebrità. Le foto di Montinaro furono scatti rubati: da qui la loro rarità, che oggi, a trent'anni di distanza, rendono bene l'atmosfera dolorosa a chi non ha mai osservato direttamente quel fenomeno tanto infinitamente triste.