Avvenire

Paolo Cesaretti

Il canto della prefica nella notte del Salento

  Un'antologia curata da Montinaro riscopre una lirica in cui risuonano echi dell'antica Grecia

Sabato 30 luglio 1994

 

I Canti di pianto e d'amore dall'antico Salento, pubblicati da Bompiani a cura di Brizio Montinaro - un attore che è anche un erudito - ci sembrano tra le pubblicazioni più meritevoli, e colpevolmente ignorate, degli ultimi mesi. Del resto, uscendo senza battage, in una collana di cultura, come potevano attirare su di sé, teatralmente, le luci della scena? Dovevano solo far forza sulla loro seduzione musicale, sul loro melismo.
Ecco dunque gli endecasillabi in ottave degli intensi canti d'amore, ecco le quartine a rime alterne degli inconsolabili canti di pianto - o forse, e meglio, dei canti di morte. In effetti, quarantaquattro dei settantuno componimenti riprodotti dal Montinaro nella lingua grico dei salentini, e da lui commentati e introdotti oltrechè resi in arioso italiano, sono il volto moderno dell'antico threnos. In quella forma poetica, ben nota a chi abbia qualche uso di classici greci, si levava alto il compianto per i defunti, catalogando le loro qualità; alla parola del canto poteva poi accompagnarsi anche il ritmo e il gesto, sicchè i superstiti talvolta raggiungevano un' eccitazione parossistica, e persino un'isteria che infine sfociava in catarsi, consentendo il reinserimento degli afflitti nella comunità.
Nei threnoi salentini, è chiaro, non ci sono vette della letteratura universale come, in Omero, il pianto di Achille per Patroclo morto, o come l'euripideo lamento per Alcesti. Di più: a quelle altissime celebrazioni dell'individualità mitica s'oppone qui un diffuso anonimato. Senza nome gli autori dei poemi, senza nome i defunti cui s'applicavano. A identificarli bastano le qualifiche di <<madre>> e di <<padre>>, di <<figlio>> e di <<figlia>>, di <<amato>> e di <<amata>>: funzioni essenziali, primarie, come parchi e primari sono gli oggetti e i contesti che fanno da scenario o corredo ai canti stessi. Ecco la strada, l'orto, la chiesa nel mondo dei vivi, ecco la lastra e la malta tombale nel mondo dei morti. E il nodo nel petto di chi resta.
Come valutare dunque i canti salentini? Non solo per le implicazioni arcaiche e remote del loro panorama antropologico; non solo per lo straniamento d'una lingua dove lacrime significa lacrime come da noi ma dove cuore si dice kardia e fuoco fotia come in greco; neppure propriamente come <<poesia>> munita d'autonomi valori estetici. Semmai, sulla scia di Jack Goody, come <<formulazioni orali standardizzate>>: regolate sì da norme certe, ma di volta in volta adattabili a circostanze e contesti diversi. I poemi epici dell'antica Grecia, in questo, non sono dissimili dai canti salentini: solo che qui non abbiamo alati aedi, bensì lamentose prefiche nerovestite.
Creature singolari, queste compagne del rito funebre, queste inesauste recitatrici del cordoglio, queste professioniste che non sono mai intruse, e che anzi con il loro intervento verbale e gestuale codificano il rango del defunto nella comunità. Per la prefica, il pianto funebre è occasione dolcissima: <<Ho saputo che fai visito (lamentazione rituale), / se fosse festa non verrei. / Ho saputo che sei in lacrime / son venuta a fare la mia parte. / Dove vedo fare visiti / mi par di sentire una chitarra>>. Di specialiste retribuite pur sempre si trattava, ma il loro lavoro dovevano amarlo davvero.
Diciamo <<dovevano>> al passato, perchè la prefica è una figura obsoleta, addirittura scomparsa. Montinaro ha registrato la maggior parte dei suoi Canti negli anni Settanta: a distanza di vent'anni, le mutate condizioni socioculturali più non lasciano spazi né riti per quell'antica presenza. Quanto poi alla sopravvivenza linguistica del grico, si dubita che possa resistere per più di una generazione.
La perdita sarà grande per tutti, non ultimi i linguisti, che più non potranno riscontrare sul campo l'annoso problema delle origini del grico salentino. Lascito di coloni dell'antica Magna Grecia? Sopravvivenza dell'ellenismo panmediterraneo della koiné? O forse eredità delle migrazioni bizantine nel IX secolo?
Più fortunati gli storici della cultura. Grazie ai lavori come quello di Montinaro potranno continuare ad applicarsi sul senso della vita e della morte nell'antico Salento, come ce lo restituiscono le composizioni orali.
Rispetto a consimili canti recitati in altre zone del grande crogiuolo culturale che fu prima ellenico e poi bizantino, l'orizzonte spirituale è diverso. In Salento è raro il sovrapporsi di elementi pagani e cristiani, alle forze ctonie del <<nero Tanato>> (greco Thanatos, morte) qui non s'oppone il manto celeste della Theotokos, la madre di Dio. Nei canti del Salento, la morte non è passaggio a miglior vita è panta nifta skotini <<sempre notte buia>>. A emanare luce, bastavano forse angeli dipinti a fresco come se ne vedono in Santa Maria a Cerrate a Squinzano: sospesi in aria, reggono il globo cristologico come se fosse un trofeo.